27 Feb L’utilità di una strapazzata
Cos’è che fa la differenza quando vogliamo dare un feedback efficace e “nutriente”?
Non tanto il nostro buon intento costruttivo o l’idea che sta alla base di quello che stiamo andando a comunicare al nostro interlocutore.
E’ il focus posto sull’utilità.
Si tratta della capacità di prendere il distacco dalle proprie emozioni e dalle proprie convinzioni, e di trasformare il proprio impulso giudicante in capacità creativa, dedicata a fornire indicazioni utili appunto per chi ci ascolta.
Per fare questo concentriamoci sul comportamento dell’altro e non sulla persona, comunichiamo specificamente cosa abbiamo notato, aiutiamolo a individuare le azioni e i nuovi comportamenti da adottare più utili per il miglioramento.
Il feedback è tanto più efficace in situazioni in cui è la persona stessa che ce lo chiede, che si aspetta di riceverlo ed è disposta a riceverlo.
Nelle occasioni in cui non ci è richiesto, non possiamo aspettarci sempre una buona conclusione.
Prendiamo in considerazione ad esempio la situazione in cui siamo o ci sentiamo chiamati a correggere l’errore di un’altra persona che in qualche modo ci ha direttamente coinvolto, ad esempio un collaboratore, un collega o qualcuno che fa parte del nostro team di lavoro, in azienda o in qualsiasi altro gruppo o associazione.
Come ci comportiamo?
Quali tecniche adottiamo?
Se non ci facciamo prendere subito dall’impulso o dalla collera, in genere seguiamo i semplici passi:
Respiriamo profondamente, aspettiamo un attimo. Siamo pronti per affrontare il problema? Respiriamo ancora un attimo e poi passiamo al punto successivo.
Prendiamo contatto con la persona e iniziamo a porre domande.
Comprendiamo quali sono i passaggi che hanno portato all’errore.
Ideiamo la strategia correttiva e di miglioramento insieme al nostro interlocutore.
Ci salutiamo con un bel 👍 e archiviamo la questione.
Quante volte quello che avevamo pensato di fare e di dire ha funzionato davvero?
Anche se nella nostra testa c’era l’idea di fare un “ca**iatone costruttivo”, pur sempre si trattava di una “strapazzata”.
Possiamo però trovare il modo di portare la discussione su linee di sviluppo e di crescita, contribuendo a superare la difficoltà iniziale dell’affrontare il discorso legato agli errori e quel momento in cui viene fuori il senso di colpa.
Soprattutto quando non si ha a che fare con errori ripetuti più volte e persone recidive.
Qual è il punto più critico dei cinque passaggi?
Parte tutto dalle domande che facciamo. Se osserviamo l’altra persona mentre le pronunciamo, ci accorgiamo rapidamente di come cambino le sue espressioni facciali, la gestualità, ancora prima del tono della voce delle sue risposte e delle parole che utilizza.
Le prime cose osservabili ci danno l’indicazione di come l’altro sta percependo quello che stiamo chiedendo: “mi sta valutando? Mi sta giudicando? Dove vuole arrivare?”.
Se ci mettiamo nei panni dell’altro comprendiamo quanto sia semplice arrivare a delle conclusioni di questo tipo, pur avendo iniziato il discorso con le migliori premesse.
Una delle domande da bandire assolutamente è “Perché l’hai fatto?” o peggio ancora “Perché l’ha fatto?” riferendoci ad una terza persona.
Tanto per cominciare richiama la sgridata della mamma: pur essendo ormai cresciuti, la “strapazzata” fa sentire piccoli e magari un po’ pasticcioni, e può impattare sull’autostima, andando a toccare le convinzioni e l’identità.
Inoltre fa percepire più pesante la nostra autorità nei confronti dell’altro e toglie potere alle nostre buone intenzioni, al fatto che vogliamo capire cosa sia successo e come si siano svolti i fatti.
Chiedere “perché” ci rimanda alla celebre tecnica giapponese di Sakichi Toyoda, in cui con cinque domande riusciamo ad esplorare i nessi di causa-effetto del nostro problema.
Il punto sta nell’utilizzare correttamente i “perché”, andando ad affrontare direttamente la causa dell’errore, le azioni e i comportamenti responsabili, e non il responsabile stesso.
I “Perché l’hai fatto?” invece fanno intuire che stiamo giudicando e in effetti è proprio questo che facciamo.
Chiediamo “perché” quando ci sentiamo in diritto di dire che cosa avremmo fatto noi invece, quali soluzioni migliori sarebbero dovute essere prese in considerazione, che cosa è giusto e cosa è sbagliato.
E arriviamo a volte a pensare: “è perché lui è/lei è…”.
Anche se tutti questi pensieri restano nella nostra testa, verdetto finale incluso, il nostro interlocutore si è accorto di tutto.
Nelle mie esperienze lavorative ho osservato quello che succede sia da una parte che dall’altra e ho trovato più di una volta la conferma che anche dichiarare apertamente che quello che accade ha alla base le migliori intenzioni non sempre porta a buoni risultati.
Faccio fatica a credere alle persone che alla fine di una “strapazzata” con pochi spunti costruttivi concludono il discorso con “lo faccio per il tuo bene”.
In tante occasioni ognuno di noi fa quello che fa per un naturale principio di protezione verso se stesso, prima di rivolgersi verso qualcun altro, anche se le l’istinto altruistico e anche un po’ l’epoca e il contesto sociale in cui ci troviamo ci spingono a fare del nostro meglio nei confronti delle persone con cui ci rapportiamo.
Se quando ci troviamo di fronte a qualcuno che ha appena sbagliato in qualcosa, tenessimo presente che ognuno di noi opera le scelte che ritiene migliori in un determinato momento, riusciremmo a mostrarci autenticamente comprensivi e non giudicanti, e aiuteremmo anche a non smorzare l’entusiasmo di chi lavora insieme a noi.
Ci vedrebbero senza indosso la maschera del giudice, per quello che siamo.
Emergerebbe più chiara l’utilità in tutto questo.
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